Dante

di Giovanni Papini

[da 24 cervelli]




I

L'opera di Dante non è ancora finita di scrivere. Quando lo sdegnoso poeta ebbe chiuso, col bel verso celestiale, l'ultima cantica, aveva soltanto creato il tema fondamentale sul quale gli uomini dovevano eseguire le più complicate variazioni. Un gran libro non è che il motivo iniziale dal quale movono le generazioni per comporre tutti i tempi possibili di una sinfonia secolare. Ogni uomo che legge una grande opera, anche se ha l'anima piccola, vi aggiunge una riga, un'intonazione, una pausa e qualcosa di ciò che egli sente penetra in essa e si trasmette a quelli che leggeranno dopo.

Perciò i libri massimi -come quello di Dante- non possono esser considerati soltanto come creazioni personali, ma bensì come formazioni artistiche di un genere particolare; nelle quali, ad un blocco centrale originario, si aggiungono tante stratificazioni fin al punto di cambiarne la primitiva forma.

Ognuno di noi, anche leggendo la Commedia senza commenti, non può dimenticare tutto ciò ch'è stato detto su Dante e tutte le interpretazioni dell'enorme opera sua. Possiamo dimenticare le postille dei pedanti, le quisquilie dei casuisti, l'erudizione dei filologi, le glosse dei maniaci, ma non riusciamo a sopprimere le concezioni che alcuni uomini superiori hanno espresse ed imposte sul poema sacro. Noi vediamo Dante attraverso di loro come il cielo attraverso Newton e gli angeli attraverso Dionigi Aeropagita.

Ma possiamo far qualcosa di meglio che dimenticare -possiamo continuare l'opera di questi collaboratori dell'Alighieri. Noi dobbiamo trovare un'altra interpretazione della sua anima e della sua opera superiore a tutte le interpretazioni passate. Scrivevo tempo fa, in un libro ch'è un bilancio passionale dell'anima italiana di oggi, che l'Italia non può comprendere Dante: alcuni filologi si son quasi offesi di questa semplice constatazione di fatto. Ma se quegli eccellenti professori non rifuggissero troppo dai sinceri esami di coscienza dovrebbero convenire con me che il cosiddetto "culto di Dante" è soprattutto un pretesto per mettere insieme lavori di critica, di storia, di filologia, dove non c'è nessuna traccia autentica di una vera educazione dantesca. Quasi tutti studiano Dante con la stessa attitudine mentale con la quale si potrebbero il più oscuro poeta eroicomico del seicento, o la più insignificante questione di epigrafia greca, senza mostrare di aver tremato davvero accostandosi a una delle più terribili creazioni dell'uomo.

Ma io non voglio soltanto fermarmi a dire che gli altri non comprendono Dante come andrebbe compreso, cioè come "professore di grandezza morale". Voglio, di più, accennare a quale nuova concezione potremmo avere di lui e da qual punto bisogna guardarlo per vedere tutta intera la sua figura giganteggiare sullo sfondo dell'eternità.


II

La miglior prova di quello ch'io sostengo, cioè dell'impotenza comune a comprendere dantescamente la Divina Commedia, sta nella modestia delle concezioni che ne hanno comunemente anche gli uomini intelligenti. O si voglia vedere in lui una specie di profeta della sua nazione come Carlyle, o un apostolo dell'unità della patria come Mazzini, o l'iniziato a sette misteriose come il Rossetti, o una specie di eretico e di precursore della Riforma come l'Aroux, o semplicemente un grandissimo artista come il De Sanctis, non si fa che attribuirgli fini e qualità che molti hanno avuto o possono avere. Non lo consideriamo come qualcosa a parte, come un uomo unico. Lo rimettiamo in una delle tante classi in cui possiamo dividere l'esercito degli operai dello spirito. Vi sono stati, prima o dopo di lui, grandi poeti, grandi riformatori e grandi profeti e la questione starebbe nel vedere a quale di questi gruppi egli appartiene e come e quanto sia superiore agli altri che ne fanno parte.

Per me, invece, Dante è stato grande perché ha fatto qualcosa che nessun altro ha fatto né prima né dopo di lui. Egli può essere anche un grande poeta o un grande mistico, ma ciò che lo separa da tutti gli altri non è questo. L'arte, la teologia, la politica sono, per lui, mezzi subordinati alla sua massima ambizione -quella d'essere il vicario d'Iddio sulla terra.

Dante era sinceramente cattolico e appunto perché cattolico sentiva l'enorme scadimento del Pontificato. La concezione del Papa come Vicario di Cristo era grande: se fosse stata conservata nella sua purezza non sarebbe sembrata innaturale la signoria che il Pontefice, con la semplice forza della parola, voleva esercitare su tutti i regni della terra. Ma il papato stesso si era fatto terrestre, si era cibato d'oro, aveva venduto il suo diritto al dominio spirituale del mondo per ottenere il dominio materiale sopra una minima parte del mondo e la sua stessa ragion d'essere, -la sua missione di giudice supremo degli uomini,- era scomparsa dal momento ch'esso medesimo poteva non solo esser giudicato ma condannato. I papi, fedeli al loro mandante, non potevano pretendere di rappresentarlo veramente in terra.

Allora nell'anima di Dante nacque istintivamente il desiderio di sostituirsi a questi vicari infedeli e di giudicare loro medesimi come Dio stesso li avrebbe giudicati. Egli volle esercitare, per quanto in poter suo, quelle funzioni che quelli avevano dimenticate, ma poiché teneva, malgrado tutto, a non uscir da quella Chiesa che rappresentava, anche nella sua bassezza, la tradizione ininterrotta di Cristo, non volle farsi capo di rivolte interne o sovvertitore della gerarchia esistente. Egli scelse lo strumento che aveva più familiare, l'Arte, e scrisse un poema che non è, come i rossettiani credono, un libello anticlericale ma un vero e proprio atto pontificale.

Bisogna avvertire, però, per comprendere bene il significato di questo suo atto, che egli aveva un'idea del vicariato divino abbastanza diversa da quella rappresentata dalla tradizione romana. La Chiesa Cattolica fu soprattutto la continuazione dell'opera apostolica di Cristo e il Papa, in quanto vicario di cristo, si consacrò specialmente all'educazione spirituale degli uomini. L'istituzione del la Messa per ricordare quotidianamente il simbolo della redenzione del peccato, la confessione, la propagazione della fede tra i pagani, sono tante prove dell'indirizzo prevalentemente pedagogico e moralizzante della Chiesa. Essa era la maestra del mondo, e in Cristo vedeva soprattutto l'insegnante di verità morali ed eterne.

Dante, invece, si ricordò di una parte delle promesse di Cristo alla quale i Papi non avevano dato soverchia importanza: il Giudizio Universale. Dio non è soltanto colui che illumina e salva gli uomini, ma colui che in un terribile giorno giudicherà i vivi e i morti. L'idea del giudizio, che nel Medio Evo s'era espressa così tragicamente nei canti e nelle pitture, non era stata associata fin allo ra coll'idea del pontificato.

Dante fu il primo a ricordarsi che Dio non è soltanto un Maestro ma un Giudice e ritenendo necessario che Dio avesse un vicario in terra scelse di rappresentarlo piuttosto come Giudice che come Maestro. Così nacque la Divina Commedia la quale, per chi ben la guardi, non è che un Giudizio Universale anticipato.

Dante sa che il mondo non è finito e che non tutti gli uomini sono morti, ma egli prende tutti i popoli e le generazioni, dai partiarchi ai capipopolo dei suoi giorni, e li distribuisce nei tre regni come Dio avrebbe fatto. Esso si sostituisce a Dio, precede il gran giudizio, e caccia giù nelle bolge o innalza su nelle sfere i papi vigliacchi, gli imperatori superbi, i capitani grifagni, le donne innamorate, i santi e i guerrieri, gli eremiti e i sapienti, i poeti e i politici. Nessuno manca: accanto alle donne del Vecchio Testamento ecco le regine del dugento, insieme ai consoli di Roma i pittori della Toscana, e un re morto da poco parla con un poeta di Grecia o di Roma, un santo dei primi tempi cristiani si accompagna a un guerriero fiorentino.

Ognuno ha la sua pena e il suo premio e Dante cammina in mezzo a loro in veste di spettatore mentre in realtà è il loro giudice. La Divina Commedia è il Dies Ir&ealig; di un grande spirito che non può aspettare l'ira divina e assegna provvisoriamente a ciascuno il suo posto; è una valle di Giosafatte incompleta, dove sono presenti tutti i morti, ma intorno alla quale nascono nuovi viventi.

Dante sentiva che il suo genio era una specie di investitura divina che gli dava il diritto di giudicare quelli ch'erano vissuti fino a lui, ed era così sicuro di rappresentare Iddio meglio dei preti venali e dei papi intriganti, ch'egli ben conosceva, che non esitò a cacciar nell'Inferno anche quelli che si spacciavano di fronte agli uomini come vicari e ministri d'Iddio. E così abbiamo avuto il sublime spettacolo di questo poeta fiorentino il quale, dall'alto di un trono più duraturo di quelli di bronzo, pronuncia senza tremare condanne terribili che non sono state ancora cancellate e par quasi che voglia forzare Iddio, colla potenza dell'arte, a ratificare le sue sentenze.


III

Un solo uomo, dopo Dante, ha pensato di fare qualcosa di tanto grande: Michelangelo. La Cappella Sistina è l'unica illustrazione degna della Divina Commedia. Io ho pensato a volte a un portentoso dramma del Giudizio per il quale Dante avrebbe potuto dettar le parole, e Palestrina comporre i suoi accordi. Soltanto per le trombe dell'angelo che deve svegliare i morti (pensate quale suono debbono avere codeste trombe che destano fin dal sonno della morte!) avrei chiesto l'aiuto di Riccardo Wagner.

Se domani salisse sulla cattedra di S.Pietro un Pontefice che osasse fare ciò a cui nessuno pensa, potrebbe far ricoprire quegli affreschi del Botticelli, e dei suoi compagni della Cappella Sistina, da' quali ricaviamo solo qualche spettacolo di grazia, e nel lor posto dovrebbe far scrivere, in bei caratteri rossi, tutta la Divina Commedia, accanto al solo commento degno di essa: il Giudizio di Michelangelo.

(1907)


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