In relazione al dibattito che si sta accendendo su questa pagina, data la richiesta esplicita di pareri anche da parte di studenti, ho deciso di fornire il mio contributo, per quel che può valere l'opinione di chi ha poca esperienza e quindi è facile bersaglio della critica di chi ne ha più di lui; d'altro canto accogliere il dictat wittgensteiniano e tacere su ciò di cui non si può parlare toglie all'inesperienza il vantaggio dell'entusiasmo, genuino se non ingenuo. L'intervento di Procesi, anfitrione sulla sua pagina web della discussione, è così articolato da suscitare riflessioni non solo in merito alla questione specifica del riassetto (o reset?) delle facoltà scientifiche in Italia, ma anche sullo status della matematica nella cultura italiana contemporanea e precisamente sull'idea che si ha della matematica (e quindi che i non matematici, incommensurabile maggioranza, hanno di essa). Ho diviso, perché non risulti indigesto e per agevolare eventuali lettori, in sezioni questo intervento: si noterà come i temi trattati m'abbiano deviato dal semplice esercizio della riflessione a quello della divagazione e forse della farneticazione.
La matematica possiede una collocazione unica nello scibile: è indubbiamente una fonte irrinunciabile di idee, nelle cui acque sono disciolte sapienza e tecnica, forma e contenuto, eleganza ed utilità pratica. Nessuno, per quanto analfabeta, potrebbe inoltre mettere in discussione il valore teoretico della matematica che ne fa il basamento sul quale erigere ogni dottrina che abbia pretesa scientifica, dalle teorie fisiche a quelle economiche. Eppure il ruolo che effettivamente svolge nella cultura italiana, primo fra tutti nella scuola, è marginale ed assolutamente irrilevante. Non si ritiene che la matematica sia realmente un obbligo nella formazione di una persona di media cultura, e nemmeno di un intellettuale, al più si è disposti a concedere che sia un male necessario, una infezione passeggera dello spirito. Si danno esempi innumerevoli di pretesi intellettuali che magari sanno salmodiare i più riposti commenti critici alla Commedia dantesca, che declinano i più inusuali verbi irregolari della grammatica latina e greca e che candidamente ed anzi con orgoglio confessano la propria idiosincrasia e completa ignoranza in fatto di materie scientifiche, e di matematica in particolare. Ovviamente quando li si apostrofa come ignoranti, perché letteralmente ignorano una parte consistente dello scibile (quella concernente le nozioni scientifiche appunto), si alterano a storcono aristocraticamente il naso bollando come tecniche (e quindi implicitamente sterili, aride, rozze giare incapaci di contenere i preziosi effluvi della teoresi che meritano ben più eleganti recipienti) le nozioni delle quali non sono a parte.
Tutto ciò è ben noto, ma val la pena farvi costante ritorno con la memoria ogni qual volta si affronti una discussione sulla matematica nella società italiana (e quindi nelle università). Credo che la consapevolezza di questo pesi sui matematici come un macigno pronto a schiacciarli: il matematico si deve sempre giustificare. Deve giustificare l'incomprensibile passione che nutre per quelle nozioni "aride e sterili", l'insano piacere per il ragionamento matematico, per la dimostrazione e per l'astrazione del mondo nel quale spende le sue ore lavorative. "A che serve?" è la domanda che più insistentemente il matematico sente rivolgersi dalla "gente grossa" (mi si passi il dantismo) e ciò che è peggio si cerca sempre di rispondere, ricorrendo magari ai massimi sistemi. Chiaramente se si risponde "è bello", "mi piace" e così via, nel migliore dei casi si è apostrofati come eccentrici pervertiti, nel peggiore come dei mangiapane a ufo che si nutrono alle procaci poppe (mi si passi un altro dantismo) dello Stato che spende soldi per così vani propositi sottraendoli magari alla ricerca sul cancro o all'edificazione di orfanatrofi e simili. Non dico che bisognerebbe organizzare (pure se in fondo l'idea non è del tutto priva di senso) partite di calcio i cui proventi vadano alla ricerca sulla topologia simplettica (come avviene per quella sul cancro) ma credo che il valore della ricerca di base non possa essere messo in discussione da nessuna mente ragionevole.
Per rendersi conto della scarsa considerazione che il pensiero scientifico ha nella società italiana basti pensare alla scuola superiore. Il liceo scientifico, che, come suggerisce il termine, dovrebbe fornire una panoramica almeno mediocre del mondo della scienza sforna invece persone spaventosamente ignoranti; il liceo classico sforna, oltre che ignoranti, anche supponenti: si ritiene che solo lo studio del latino e del greco possa fornire gli strumenti logici e critici del vero intellettuale, che invece può benissimo ignorare le nozioni anche fondamentali della matematica e della fisica non dico moderne ma almeno post-illuministe senza nocumento per la formazione di una seppur parziale almeno non semplicisticamente fallace visione del mondo, pardon, intendevo dire Weltanschauung.
Nei programmi scolastici ci si arresta infatti alla matematica settecentesca, o meglio la si lambisce. Si spendono i primi anni del liceo sull'algebra (al più quella del XVII secolo) e la geometria (Euclide sostanzialmente: già Archimede è ignorato come troppo moderno) elementari e la geometria analitica (XVII: Cartesio e Fermat, ma non Pascal ad esempio) del piano; poi un anno intero di trigonometria (qui c'è un regresso al medioevo islamico) per passare all'analisi ma, per carità!, limitandosi al calcolo in una variabile stile Newton-Leibniz. Si immagini una situazione analoga per la filosofia: ci si arresterebbe agli albori del '700, magari finendo con Hume e lasciando la filosofia da Kant in poi ai corsi universitari... Per la fisica la situazione non è migliore, anzi è decisamente peggiore dato che si pretende di insegnare la fisica newtoniana (o una sua pallida immagine) senza l'analisi: e pensare che Newton ha dovuto inventarla proprio per questo motivo!
Conscio che il mero esercizio della critica rischia di logorare, mi azzardo in una proposta (provocatoria) per le scuole superiori: visto che l'approccio agli studi superiori è di taglio nettamente storico, in Italia, si studi anche la matematica con questo criterio, seguendone lo sviluppo in parallelo a quello della letteratura, della storia e della filosofia: i primi due anni la matematica antica, principalmente greca; poi il medioevo (ad esempio il fertile periodo islamico) poi il rifiorire rinascimentale, che fra l'altro è principalmente italiano, il periodo barocco dominato da Cartesio e Fermat fino alla creazione del calcolo infinitesimale e così via. Aggiungo che questo gioverebbe moltissimo alla formazione critica perché consentirebbe uno studio centrifugo rispetto alla centralità classica che pervade gli studi superiori: sapere che, mentre l'Europa si immalinconiva nelle nebbie dell'Alto Medioevo, l'Islam portava avanti il testimone della speculazione matematica e filosofica è certo un buon apporto all'espansione del proprio orizzonte culturale oltre i ristretti confini ormai svaniti dell'Impero romano; sapere che Babilonesi ed Egizi estraevano radici e risolvevano problemi di secondo grado e calcolavano aree e volumi può contribuire a rivalutare quel periodo di quasi tremilacinquecento anni di storia che viene visto come un semplice e breve prologo allo splendore della Grecia classica e che invece ha prodotto frutti non meno notevoli di quelli ellenici in ogni campo.
Unamuno esortava a considerare i filosofi come hombres de carne y hueso e lo stesso può dirsi dei matematici: lo storia della matematica non è un museo di eccentrici disadattati che, in momenti di depressione maniacale, hanno prodotto bizzarre ed astruse fantasticherie, ma possiede una sua fisionomia e pervade la storia propriamente detta intrecciandosi con essa: considerare non solo il metodo ma anche l'uomo forse porterebbe più vicina la matematica rendendola, come è ovvio, più umana per chi crede che non lo sia.
Lo studente esce dal liceo del tutto ignaro: crede, nel suo percorso quinquennale fino al sospirato diploma d'aver visto, seppure non in dettaglio, tutte le grazie che la natura può offrire sollevando i propri veli. In particolare ha una idea, completamente errata, della matematica e si sente, come gli è infatti richiesto, in grado di scegliere il suo futuro indirizzo di studi (nell'ipotesi che voglia proseguire ad affaticare le pagine dei libri). Dopo qualche giorno di lezioni universitarie in una facoltà scientifica, la clamorosa ed irritante scoperta: il mondo è ben più complicato di quel che si credeva, e la matematica sorprendentemente più vasta. Esistono arcani come le matrici, le applicazioni lineari, i temibili epsilon ed i delta loro complici, che insidiano il già incerto cammino della matricola verso la nuova sospirata mèta: la laurea. Queste prime dolenti note che iniziano a farsi sentir rischiano d'essere le prime d'un'intera sinfonia, se lo studente non corre ai ripari erigendo una barricata fra sé e questo oceano di nozioni pronto a travolgerlo, e questo argine consiste per i più in uno "studio matto" e claustrale di corsi che si affastellano l'un sull'altro senza (agli occhi dello studente) un preciso scopo.
Quando frequentavo il I anno di Matematica, qui a Roma I, l'organizzazione didattica prevedeva quattro corsi annuali (Analisi I, Geometria I, Algebra e Fisica I), che dissennatamente seguii come suggerito dall'ordine degli studi: al colmo dello zelo provai anche a dare Analisi I e Fisica I contemporaneamente (gli orali vennero disputati il medesimo giorno) rifiutando 18 e 19. Questa mia ingenuità da vera matricola ammette tuttavia una seppur parziale giustificazione: se infatti l'ordinamento accademico, del quale giustamente mi fidavo, suggeriva la frequenza in contemporanea di quattro corsi pareva implicito il consiglio di sostenere con analoga simultaneità anche gli esami... La morale di questo triste aneddoto è che certamente una "modularizzazione" degli studi non può che giovare agli studenti, e la frammentazione dei corsi sembra essere una soluzione più moderna (tanto più che, nell'abolizione della simultaneità dei corsi e nel loro restringimento temporale, ricorda un effetto relativistico).
Così la proposta di segmentare i corsi per snellirli sembra ragionevolissima. Il problema è che la mole di nozioni non deve cambiare, ed il risultato, ad esempio, della semestralizzazione, è che lo studente (immaginiamo sempre l'ignaro maturato) deve sì concentrarsi su due o tre materie al massimo contemporaneamente, ma deve farlo nella metà del tempo, e ciò che ne risulta è che difficilmente potrà capire qualcosa di quello che gli viene insegnato.
Secondo me non si può infatti pretendere che chi a settembre conosce solo la matematica del liceo possa a febbraio sostenere un esame di analisi I o geometria I: cercherò di spiegarlo nei prossimi paragrafi.
Lo sviluppo della matematica rende evidentissimo un principio storico inoppugnabile: col procedere del tempo e col progresso delle conoscenze, le nozioni tendono a divenire più facili da spiegare e comprendere, fin quasi a banalizzarsi del tutto. Un'occhiata alla storia dell'Algebra permette di esemplificare questa osservazione: guardando ai testi del '500, come quelli di Cardano o Bombelli, vediamo che essi trattano nozioni per noi oggi elementari (alcune delle quali impartite infatti alle scuole elementari, come la manipolazione delle espressioni letterali) come se fossero ardue e difficili: ed effettivamente lo erano; poi i metodi di calcolo delle radici, la teoria dei polinomî e delle equazioni erano argomenti sottili e quasi intrattabili. Oggi, col nostro simbolismo e con un secolo di assiomatica alle spalle, riusciremmo a compendiare in poche pagine la ponderosa mole dei trattati degli Algebristi del '500. Naturalmente questo non sminuisce affatto il valore di quelle nozioni e di quegli studiosi, ma testimonia piuttosto il progresso avvenuto dai loro tempi ai nostri; inoltre, dato che per l'evoluzione della cultura esiste una regola simile alla legge di Haeckel nell'evoluzione biologica ("l'ontogenesi ricapitola la filogenesi"), la tendenza di certe nozioni a divenire elementari col passar del tempo va di pari passo con il loro affiorare in stadi sempre più elementari dell'educazione e dell'istruzione; quello che un tempo di studiava all'università si è poi studiato alle superiori ed ora alle medie. Ciò è collegato ad un'altra questione legata ai meccanismi dell'apprendimento: la familiarità. La consuetudine con una nozione la rende semplice, fino a farla divenire ovvia.
Questo sarà stato sperimentato da chiunque abbia appreso una materia che non conosceva affatto, ad esempio una lingua straniera; dopo mesi, anni, decenni passati a studiare un argomento, le sue basi divengono a noi così familiari che le consideriamo scontate, ormai indegne di attenzione, mentre ci dedichiamo ai suoi più elevati sviluppi. L'algebra è di nuovo un esempio illuminante: a chi possiede le minime nozioni dell'algebra universitaria, l'algebra elementare (che infatti è ghettizzata nel termine "algebretta") sembra ovvia, banale, ed infatti molte dimostrazioni che, con gli strumenti elementari sono complicate, con strumenti più avanzati divengono semplici, fino ad essere evidenti.
Questo processo di semplificazione di una nozione col passare della consuetudine rende la matematica una dottrina iniziatica: al novizio essa parrà tutta inaccessibile ed arcana (a partire dal simbolismo, che molti considerano non meno esoterico di quello alchemico), mentre, man mano che i suoi misteri si disvelano ai nostri occhi, come i serici veli d'una danzatrice orientale, ella ci diviene più comprensibile, riusciamo a scorgerne i tratti e le nebbie del mistero paiono diradarsi. Basterà pensare alla geometria algebrica per rendersene conto: i diversi livelli di generalità degli oggetti che vi si studiano (varietà affini, quasi-proiettive, algebriche, schemi, spazi algebrici) esemplificano perfettamente il cammino iniziatico che l'adepto deve percorrere per arrivare finalmente a penetrare i misteri di questa disciplina.
Senza dubbio gli sforzi maggiori, come nel caso dell'apprendimento di una lingua, debbono farsi all'inizio: così come per un viaggio in aereo la fase più delicata è il decollo (e specularmente l'atterraggio) l'inizio dello studio matematico e scientifico determinerà notevolmente il cammino stesso.
Per questi motivi, credo, è necessario porre la massima attenzione al biennio di qualsiasi facoltà scientifica, in particolare al biennio di matematica. Comprimere troppe nozioni in questo periodo è certo un errore, ma non credo che attualmente le nozioni del biennio siano troppe: piuttosto sono male scaglionate, vale a dire distribuite uniformemente, il che è sbagliato: è un errore supporre che i tempi di apprendimento siano costanti; essi diminuiscono invece col passar del tempo, e quindi, ad esempio, il primo semestre di una facoltà scientifica dovrebbe essere "meno denso" del secondo; le sue nozioni meno fitte, e si dovrebbe insistere in modo preponderante sulla "manualità", sul prendere una confidenza sempre più intima con gli esercizi ed i tentativi della loro risoluzione. Vale inoltre un principio pedagogico che spesso si sottovaluta: quello della ripetizione; snellire i corsi del biennio rendendoli a intersezione vuota è per me un errore. Infatti per inquadrare le nozioni fondamentali, ad esempio il concetto di applicazione lineare, le matrici, il concetto di continuità, giova vederle incarnate in scenari diversi e mutevoli. Certo non si deve suggerire l'idea, come Procesi stigmatizzava nel suo intervento, che le stesse nozioni siano diverse perché sono diversi gli ambiti (la topologia degli analisti, quella dei geometri, &c.) né ripetere ad nauseam concetti elementari, ma è utile illustrare una stessa nozione in modi diversi e nelle diverse applicazioni, tuttavia sottolineando che queste sono solo proiezioni di un'unica entità centrale.
Così se vogliamo smontare i corsi monolitici tradizionali facciamolo pure ma riutilizziamone tutti i mattoni per edificare il nuovo assetto didattico dei primi anni. Ovviamente si possono eliminare o posticipare nozioni che forse è prematuro impartire agli inizi, ed è certo auspicabile aggiungerne di nuove, ma credo che nel complesso le nozioni debbano rimanere le stesse. Facciamo un esempio: Procesi parla nel suo intervento della teoria di Galois; usualmente questa non si studia al biennio, e così può capitare che qualcuno si laurei senza averne nemmeno sentito parlare. Io credo invece che sia un perfetto esempio per illustrare quanto fin qui detto. Come ogni teoria matematica è stratificata, esistono diversi livelli di generalità o, inversamente, di concretezza ai quali la si può affrontare. Alcuni suoi aspetti sono certo delicati, altri richiedono una certa maturità perché li si possa apprezzare, eppure non trovo teoria migliore attorno alla quale imperniare un primo corso di algebra. Intanto lo studente dovrebbe approdare a questo corso dopo aver digerito l'algebra lineare, e questo consentirebbe di affrontare la teoria di Galois sui complessi con tranquillità; inoltre essa permette di introdurre tutte le nozioni fondamentali di un primo esame di algebra (anche storicamente è stato così!) ad esempio il concetto di gruppo e gli elementi della teoria dei gruppi finiti, le estensioni di campi, gli anelli dei polinomi. L'impostazione che segue il percorso rigoroso dal generale al concreto (insiemi, gruppi, anelli, campi) degli attuali corsi d'algebra è ormai sorpassata o meglio insufficiente, specie se lede l-introduzione di nozioni che esulino da questo schema ma siano non meno importanti: insomma in un corso fondamentale si dovrebbero dare le fondamenta di una disciplina senza tuttavia cadere nel fondamentalismo, irrigidendosi su posizioni di astratto rigore che magari ignorano esempi pervasivi nell'intera matematica, col risultato di dare l'impressione che l'algebra sia uno sfoggio vorticoso di nozioni astratte, mentre il suo aggancio con la fisica è, o dovrebbe essere, messo in luce fin dai primordi del suo studio. Un altro esempio è il teorema fondamentale dell'algebra: la prima volta che me ne è stata mostrata una dimostrazione in un corso è stato a istituzioni di geometria superiore, via analisi complessa. Certo, le dimostrazioni elementari (basate più o meno sulla variante di Cauchy di quella di Gauss) sono lunghe, ed in genere figlie incestuose di algebra e analisi (ma non riesco a vedere nulla di negativo nei sincretismi matematici anzi li considero fondamentali); tuttavia è paradossale che in un corso chiamato "Algebra" si dimostrino teoremi come quello della base di Hilbert e si trascuri magari un teorema che già nel nome che porta si rivela ineludibile.
Un ulteriore esempio è il concetto di integrale, che ribadisce il carattere iniziatico della matematica: un concetto così fondamentale merita di essere affrontato in tutti i suoi livelli di generalità; ad esempio non credo si avrebbe alcun beneficio dal sostituire l'integrale di Riemann con quello di Lebesgue già dal biennio; anzi, per il primo anno basterebbe definire l'integrale per funzioni continue e qualche integrale improprio, perché l'integrale di Riemann, o meglio la Riemann-integrabilità, già solleva questioni di teoria della misura. A questo proposito entra in ballo la questione, giustamente sollevata da Procesi, del corso di calculus: l'idea di un primo corso per prendere contatto con le tecniche essenziali della teoria dei numeri reali e delle funzioni è certo auspicabile ed andrebbe estesa almeno a tutte le facoltà scientifiche (o presunte tali); questo calculus dovrebbe essere un corso "manuale", brandello dell'attuale analisi I, perché sarebbe più o meno il primo contatto di uno studente appena arrivato dalle superiori con la matematica universitaria. È anche chiaro che non potrebbe in alcun caso sostituire analisi I, che diventerebbe comunque, una volta separato da questo calculus, più snello e compatto. Lo stesso discorso probabilmente può farsi per il corso di geometria I, da segmentare almeno in due parti: una parte di algebra lineare ed una parte di geometria analitica elementare del piano e dello spazio, geometria affine, euclidea a proiettiva (chiaramente sto parlando dei matematici: non è chiaro che vantaggi possa dare introdurre la geometria proiettiva agli ingegneri). Questo può sembrare eccessivo, ma credo che l'algebra lineare dovrebbe essere resa indipendente, tanto dall'analisi quanto dalla geometria, o meglio equidistante da entrambe. Infatti uno degli arcani più inspiegabili per gli studenti è questa distinzione fra algebra lineare e geometria affine ed euclidea: non capiscono affatto perché l'una sia algebra e l'altra geometria e non riescono a vedere una reale differenza fra uno spazio affine ed uno spazio vettoriale, dal punto di vista operativo; credo quindi che geometria I dovrebbe divenire in parte un corso di algebra lineare ed in parte un corso di geometria nel quale si parta con una trattazione specifica per il piano e nello spazio (e non direttamente in n dimensioni), il che permetterebbe di recuperare un patrimonio di nozioni geometriche classiche inspiegabilmente svanito: ad esempio i teoremi di Desargues e Pascal. Per i non matematici, inoltre, non è affatto chiaro che utilità possa avere lo studio della geometria affine e proiettiva, che talora toglie spazio nei corsi di geometria a metodi algoritmici dell'algebra lineare e ad argomenti fondamentali come la decomposizione di Jordan (che fra l'altro, nei miei anni di studio universitario, in nessun corso è stata trattata!).
Per quel che riguarda i corsi di fisica e meccanica razionale, da molti visti come inutili forche caudine, credo che non si possa prescindere, se non da essi, almeno dal loro contenuto; i due corsi di fisica possono essere spezzati in tre (diciamo meccanica, termodinamica ed elettromagnetismo) e fatti seguire a quelli di analisi ove si introducono le nozioni necessarie a comprenderli (ad esempio il teorema, o i teoremi, di Stokes prima di qualsiasi trattazione dell'elettromagnetismo) e magari modernizzati dal punto di vista matematico (la termodinamica si presta ad essere introdotta assieme ad un minimo di teoria delle probabilità, la cui assenza nel biennio è scandalosa). Meccanica razionale, che certo (a partire dal nome) è un dinosauro, pure andrebbe snellito, smembrato e fatto interagire sia con analisi II e soprattutto (per i matematici) con geometria II: la trattazione degli elementi di geometria differenziale si può infatti armonicamente spartire fra questi due corsi (il che consentirebbe di eliminare del tutto talune mostruosità che ancora affliggono il corso di meccanica razionale come certi professori lo intendono: quando lo seguii, e non sono passati molti anni, i tensori erano ancora "enti le cui coordinate variano così e così", mostri indefinibili che al posto dei tentacoli avevano indici e componenti), mentre non sarebbe male introdurre un corso di sistemi dinamici (equazioni differenziali ordinarie) nella terra franca fra analisi e meccanica. Insomma, meccanica razionale dovrebbe ridursi alla meccanica analitica, ma fatta in modo serio (come sul libro di Arnold, tanto per intenderci).
Forse è meglio che ponga fine a queste mie divagazioni, visto che sto cadendo nell'errore di stilare il piano di studi per il biennio, cosa che certo non mi compete. Vorrei solo esser riuscito a sottolineare come non è tanto la scelta delle nozioni né la loro ridondanza a pesare sugli studenti del biennio, ma semplicemente la loro disposizione ed i meccanismi di passaggio agli esami, altra nota dolente, quest'ultima, dell'attuale organizzazione universitaria, ed occasione nella quale, generalmente, i professori danno il peggio di loro. Insomma, l'idea di spezzare in unità più funzionali e concettualmente autonome i corsi ora esistenti è certo auspicabile, ma questa segmentazione non può avvenire semplicemente (e semplicisticamente) in base alla densità di nozioni, ma piuttosto in virtù di una distribuzione degli argomenti a seconda del loro livello di complessità, e scegliendo opportunamente il periodo del biennio nel quale uno studente medio dovrebbe iniziare a prendere contatto con quelle nozioni. Questo avrebbe anche un non trascurabile vantaggio psicologico: gli esami, così frammentati, per quanto moltiplicati in numero, non sarebbero più tour de force che necessitano di quaranta giorni di ritiro nel deserto per essere preparati anche dopo esser stati seguiti, ma prove frequenti (e quindi meno stressanti in quanto considerate ordinarie) cui lo studente periodicamente deve sottoporsi e nelle quali concentrarsi su un argomento bel delineato ma non interminabile. Insomma, a parità di contenuto calorico, è più facile digerire un pranzo in più portate che non un piatto unico di pasta, abbacchio, insalata e frutta mescolate assieme.
Una cosa vorrei sottolineare con forza, e cioè che sono decisamente contrario a quanto, più o meno velatamente, adombrava Procesi, vale a dire di sfoltire le nozioni del biennio e scaricarle sui corsi più avanzati; c'era anche una certa disposizione, in tutti gli interventi che ho letto (con l'eccezione di quello di Doplicher che in questo ha espresso una critica che io pienamente condivido), ad accondiscendere alle richieste del "mercato". Intanto non è chiaro quali siano queste richieste (né quale sia il mercato); se si intende con questo il ponte (che ricorda un po' quello sullo stretto di Messina) fra mondo accademico e mondo del lavoro non credo abbia neanche senso porre la questione. Per costruire effettivamente questo ponte si dovrebbero introdurre corsi sui più diffusi programmi di database, sulla telefonia mobile e sull'analisi di mercato, principali campi di attività dei laureati in matematica non appena giungono nel settore privato, essenzialmente quello informatico che oggi domina il mercato del lavoro. Non credo che il mondo del lavoro voglia persone già formate nello specifico ma semplicemente "svezzate" sul piano della pratica tecnico-scientifica, e questo svezzamento forse lo dà più la teoria di Galois che lo studio del calcolo numerico o del linguaggio C++.
Le mie elucubrazioni sul carattere iniziatico della matematica sembrerebbero coniugarsi con la proposta di Figà-Talamanca, e cioè dell'introduzione di livelli iniziali diversi per gli studenti. Se ne propongono tre, a seconda della preparazione iniziale delle matricole; non ho ben capito se questi differenti canali si escludano a vicenda oppure se siano l'uno preludio all'altro. Ho comunque due osservazioni, critiche, da fare al riguardo, di natura realistica e non teorica: in teoria non so se l'idea sia sensata o meno, certo da come è stata proposta pare molto inefficiente e priva di equilibrio, ma in pratica si scontrerebbe per prima cosa con l'opposizione del mondo studentesco (a torto o ragione sempre contrario a qualsiasi principio di selezione a priori) il che, se è una ragione contingente, è comunque una variabile fondamentale da considerare (per non fare i conti senza l'oste o meglio, in questo caso, senza gli avventori); la seconda ragione è che, nella pratica, uno dei due livelli accoglierebbe la maggior parte degli studenti e quindi gli stessi problemi ora esistenti si replicherebbero all'interno di questo livello di selezione. Infatti, se ho ben capito, nel livello zero andrebbero coloro che non possiedono nemmeno i già poveri strumenti che un liceo scientifico mette a disposizione; nel livello uno (che secondo me accoglierebbe la maggior parte delle matricole) andrebbero gli studenti non brillanti o comunque non matematicamente alfabetizzati oltre le nozioni loro impartite alle superiori, mentre nel terzo finirebbero le matricole brillanti o comunque in grado di sostenere un esame d'ammissione oltre la media delle nozioni liceali. Non è chiaro come questa selezione debba avvenire: se in base a conoscenza (il che sarebbe ingiusto perché sarebbero avvantaggiati quelli che vengono da una scuola piuttosto che da un'altra) o talento matematico (il che sarebbe difficile da appurare); ad esempio nel terzo livello potrebbero benissimo finire gli studenti che vengono dagli istituti tecnici, nei quali la matematica è studiata ad un livello senz'altro superiore che al liceo, mentre un genio della matematica semianalfabeta stenterebbe ad entrare nel livello zero.
Credo invece che questa distinzione in livelli sia pensata (consciamente od inconsciamente) sulla tripartizione naturale del mondo accademico: diplomati, laureati, dottorandi. Una soluzione più razionale sarebbe quindi introdurre o riarmonizzare questi tre aspetti della (possibile) carriera accademica di uno studente. L'introduzione del diploma è, pochi credo vorranno negarlo, una necessità, specie nelle facoltà scientifiche. Infatti la mortalità universitaria ha un andamento interessante; molti perseverano uno o due anni prima di cambiare facoltà o abbandonare del tutto gli studi. Introdurre il diploma consentirebbe di trasformare i due anni di studio di queste persone in un titolo, per valorizzare un lavoro comunque svolto (gli esami dati prima dell'abbandono). Il problema è come possano armonizzarsi questi tre aspetti dello studio accademico: ad esempio il diploma corrisponderebbe esattamente al biennio della laurea propriamente detta (il che consentirebbe di prolungarlo alla laurea in qualsiasi momento) oppure la differenza dovrebbe essere qualitativa più che quantitativa?
Credo che la soluzione (forse utopistica) più auspicabile sarebbe introdurre diplomi comuni a più corsi di laurea: ad esempio uno solo per matematica, fisica, ingegneria e scienze dell'informazione, uno solo per scienze naturali e biologia, &c. Questo diversificherebbe il diploma rispetto alla laurea e renderebbe più ecumenica, e quindi più duttile e, per riflesso, rispondente alle già menzionate esigenze del "mercato", la preparazione del diplomato, e lo renderebbe in grado, qualora in futuro volesse laurearsi a tutti gli effetti, di differenziare la propria scelta e non essere costretto a "cambiare facoltà" pur non avendone in pratica scelta ancora nessuna.
Il vero ostacolo che forse rende tutti questi discorsi semplici parole al vento è che tutto ciò comporterebbe una sostanziale riorganizzazione delle università, una maggiore interazione fra dipartimenti e facoltà distinte ed un lavoro, certo agli inizi notevole, per i docenti. In particolare sulla disponibilità di questi ultimi non mi azzardo a sbilanciarmi in senso positivo: non è una critica demagogica ma prende le mosse da un dato di fatto; ad esempio, la netta divisione in due gruppi (che vige attualmente di fatto) fra professori del primo biennio e professori del secondo biennio. I primi sono impegnati in esami stile catena di montaggio, mentre gli altri spesso mendicano studenti per corsi avanzati di algebra, geometria e analisi, che di solito sono seguiti dagli studenti del dottorato o da laureandi del docente medesimo. È poi opinione comune, sarebbe ipocrita non dirlo, che i professori che insegnano i corsi del biennio generalmente sono, dal punto di vista scientifico, i meno attivi e questo inevitabilmente incide anche sulle prestazioni didattiche. Chiaramente un professore che sia nel pieno della sua attività scientifica non sarà in grado di seguire la didattica a tempo pieno, e sarà estremamente riluttante ad invischiarsi in esami su argomenti elementari; il serpente, dunque, si morde la coda...
Ho parlato del diploma (che per ora vive nel limbo dei mondi possibili); sarebbe anche il caso di parlare del dottorato, cosa che fra l'altro potrei fare in base all'esperienza e non all'immaginazione; ma la discussione rischierebbe di farmi andare fuori tema ancor più di quanto non abbia già fatto e quindi preferisco, su questo argomento, aggiungere il mio silenzio a quello degli altri.
Rileggendo quanto fin qui scritto col proposito di trarne una conclusione mi trovo in grave imbarazzo: da questo mio intervento emerge sostanzialmente una critica se non alle intenzioni alla possibilità di una realizzazione pratica di quanto suggerito dagli interventi di Procesi e Figà-Talamanca: in altri termini ho esercitato quello che comunemente si chiama "disfattismo". Ho cercato pure, è vero, immodestamente di delineare alcune ipotesi, e più che di proposte si tratta forse di frammenti della mia utopia universitaria, del biennio universitario che avrei voluto frequentare a suo tempo. Non so se la lettura di questi paragrafi sia stata una semplice perdita di tempo, ma posso dire che non lo è stato scriverli; è servito almeno a me a fissare alcune idee e riflettere sulle proposte, e se, come amo credere, qualcuno (e.g. i colleghi del dottorato) potrà ritrovarsi nelle opinioni che ho espresso allora forse questa epistola verbosa e caotica non sarà stata del tutto inutile.
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