Nel suo libro di saggi Otras inquisicciones (Emecé, Buenos Aires, 1960), Jorge Luís Borges pubblicò il breve saggio La esfera de Pascal, presentandolo come la storia di una metafora della storia universale... Le suggestioni provocate dal breve scritto sono cariche di spunti matematici, e mi sono tornate alla mente nel leggere un articolo di M.Eden pubblicato nel volume Mots (Hermes, Paris, 1990) che raccoglie una serie di scritti dedicati a M.P.Schützenberger. Lo scopo di questa nota è quindi unicamente quello di collegare questi lontani e diversi scritti, tracciando in qualche modo un percorso, frutto più del caso che della ricerca sistematica, fra le visioni geometriche dell'ermetismo antico e le elucubrazioni della scienza moderna. L'eterogenea pletora di dati raccolti è ciò che ho da offrire all'attonito lettore.
Qual'è il geometra che tutto s'affigge
Per misurar lo cerchio, e non ritrova,
pensando, quel principio ond'elli indige,
Tal'era io a quella vista nova:
Veder voleva come si convenne
L'imago al cerchio e come vi s'indova;
Ma non eran da ciò le proprie penne:
Se non che la mia mente fu percossa
Da un fulgor in che sua voglia venne.
A l'alta fantasia qui mancò possa;
Ma già volgeva il mio disìo e 'l velle,
Sì come rota ch'igualmente è mossa
L'amor che move il sole e l'altre stelle.
Così, mirabilmente, si conclude il Paradiso di Dante, il quale dichiara esplicitamente di non essere in grado di descrivere né di comprendere la visione divina cui si trova dinanzi, e con la quale termina, quasi spossato, l'intero poema. È notevole il fatto che il poeta scelga come termine di paragone il problema della quadratura del cerchio, questione oscura e misteriosa ai suoi tempi.
Il costume intellettuale di usare paragoni geometrici nel descrivere questioni teologiche inafferrabili non è esclusivo di Dante, ma si trova in tutta la letteratura metafisica classica. Infatti, nell'antichità, la teologia e la visione del mondo erano un tutt'uno: le entità metafisiche venivano comunque "localizzate" in qualche posto, seppur ultraterreno, e quindi erano passibili di descrizione geometrica.
Così l'universo degli antichi, ad esempio l'universo aristotelico che dominava la Weltanschauung medievale, comprendeva luoghi geometricamente determinati ove risiedevano le potenze sovrannaturali e Dio stesso. La famosa descrizione delle sfere concentriche più o meno numerose che circondano la Terra, centro del Creato, è stata un modello geometrico dominante nel Medioevo. Queste descrizioni non hanno perduto il loro fascino né la loro suggestione: in particolare la questione più interessante riguarda l'ultima sfera del Creato, che corrisponde poi all'Empireo. A proposito di questa, San Bonaventura afferma che "contiene ogni cosa e non è contenuta in null'altro" (omnia continens et a nullo alio contenta), così come Campano da Novara (astronomo, medico e cappellano di Urbano IV, noto per un commento a Euclide) dichiara che la superficie "convessa" del cielo Empireo non ha altro oltre sé.
Queste opinioni sembrano esprimere una concezione geometrica moderna, secondo la quale gli oggetti geometrici non devono necessariamente essere pensati come immersi in uno spazio euclideo, ma possono essere considerati a sé stanti (il che ci fa pensare alle verietà riemanniane della relatività generale, i modelli moderni dello spazio-tempo).
La questione può essere ancora più sottile (e fuorviante) se si considerano le coincidenze numeriche fra le concezioni cosmogoniche antiche e moderne: i 9+1 cieli medievali e la segnatura 9+1 dello spazio-tempo di Witten (su questo argomento e sul confronto superstringhe-tomismo, si veda O. Pekonen, The Heavenly Spheres Regained, The Math. Intell. 15 (1993), 22-26).
Un dato che per noi moderni può apparire arbitrario è l'incessante ricorrenza della forma sferica in questo tipo di discussioni di, per così dire, geometria/metafisica. Questo è facilmente spiegato se si considera che la concezione degli antichi della geometria e delle figure geometriche era totalmente euclidea: il concetto fondamentale sul quale si fondavano le definizioni e le argomentazioni geometriche era quello di "distanza", perché direttamente sperimentabile nel mondo fisico (a sua volta non sempre distinto dal mondo geometrico) tramite la vista ed il tatto. La necessità di misurare lunghezze, aree e volumi ha dato origine alle prime astrazioni della gometria, e la simmetria e la perfezione delle figure geometriche elementari sono sempre state affiancate alla simmetria ed alla perfezione dei numeri interi.
Così Platone, nel Timeo (VIII) spiega perché la sfera sia la forma perfetta e divina:
[...] [il Demiurgo] formò un corpo levigato ed omogeneo in tutti i punti equidistanti dal centro, e intero e perfetto, risultante da corpi perfetti, e postavi nel mezzo un'anima, non soltanto ve la distese interamente, ma con essa lo avviluppoò anche al di fuori, e così formò un cielo circolare, che si muove circolarmente, unico e solitario, ma per propria virtù autorigenerantesi, non bisognoso di nessun altro, e capace di conoscere e amare a sufficienza se stesso. E per tutte queste ragioni il demiurgo lo generò.
Si confronti questa opinione con il seguente passaggio che copio dall'incomincio del De rivolutionibus orbium cœlestium di Copernico (1453):
Per prima cosa osserviamo che il mondo è sferico, sia perché questa è la più perfetta fra le forme, totalmente integra e non bisognosa di altre compagini; sia perché è fra tutte le figure quella più capiente e che meglio conviene a custodire tutte le altre, sia anche perché ogni parte distinta del mondo, intendo il Sole, la Luna e le stelle, constano di tale forma; sia perché tutte le cose tendono a questa forma, come appare nelle gocce d'acqua e negli altri corpi liquidi, quando sono lasciati a se stessi. perciò nessuno potrà dubitare che tale forma sia anche da attribuirsi ai corpi divini
Ragioni analoghe hanno spinto i pensatori antichi a ritenere perfetto il moto circolare. Scrive Plotino nelle Enneadi (II, 2-1)
Perché [il cielo] si muove di moto circolare? Perché imita l'intelligenza. [...] In un cerchio il centro naturalmente è immobile, ma se anche la circonferenza fosse tale, sarebbe un immenso centro. Essa girerà piuttosto intorno al suo centro.
Così il movimento circolare, legato alla forma sferica, è perfetto. La perfezione è della forma sferica, e del moto circolare, implicano che questi non si addicono non solo all'universo ma a Dio medesimo. Così il presocratico Senofane, vissuto fra il VI e V secolo a.C., sostenendo l'impersonalità di Dio, che contrapponeva al culto degli déi, lo raffigurò come una sfera, reputando questa forma la meno inadatta a rappresentare l'unità e la perfezione. Parmenide di Elea, vissuto circa mezzo secolo appresso, così si esprime nel suo Poema sulla Natura, in un frammento riportato dallo scettico Sesto Empirico, nella sua opera Contro i matematici (VII):
[l'Essere] è compiuto da ogni lato simile alla massa di una sfera rotonda, di uguale forza dal centro in tutte le direzioni; che egli infatti non sia né un po' più grande né un po' più debole qui o lì è necessario.
Autorevoli commentatori, come Mondolfo (cfr. Zeller, Mondolfo, La filosofia dei Greci, IV, La Nuova Italia, Firenze, 1961) e Calogero (Storia della logica antica, Laterza, Bari, 1961) attribuiscono una valenza dinamica a queste opinioni, che riecheggia anche nel passo del Timeo citato in precedenza.
L'immagine di Dio come una sfera (infinita, o dinamicamente tendente all'infinito, come il pensiero presocratico lascia intendere) è riaffiorata negli scritti ermetici, il cui corpus si è caoticamente ed eterogeneamente ampliato a partire dal III secolo d.C., e che compendiano la sapienza antica iniziata da Hermes Trismegistus figura mitica, (il nome dice: Mercurio tre volte sapiente), leggendario re-mago, identificato anche col dio egizio della sapiena Toth (ritratto di solito come babuino scriba), che avrebbe regnato per 3226 anni e scritto 36525 libri; Giamblico, nel suo I misteri dell'Egitto diminuì, nel vano tentativo di rendere credibili questi dati, il novero dei volumi a 20000 e Clemente Alessandrino, nei suoi Stromata, li ridusse ragionevolmente a 42. Di questa opera mitica non restano che dei frammenti, tessere forse di un unico mosaico, che vanno sotto il nome di Corpus Hermeticum.
In uno di questi scritti frammentari troviamo (si tratta dell'Asclepio) la seguente formula, evidenziata per la prima volta dal teologo francese Alanus de Insulis sul finire del XII secolo:
Dio è una sfera intellegibile, il cui centro è in ogni parte e la cui circonferenza è inaccessibile.
Questa inimmaginabile configurazione geometrica sembra ricorrere nel pensiero post-medievale in forme assai diverse, eppur preservando il suo carattere originario; Borges, che ne ricostruisce la storia nel libro Otras inquisicciones (Emeceé, Buenos Aires, 1960) afferma che l'immagine di una simile e inconcepibile sfera è una metafora il cui iterarsi perdurerà ab eterno.
Fra le sue manifestazioni, qui ricordiamo quella emersa nel De la causa, principio et uno di Giordano Bruno, dove (libro V) si legge
[...] sicuramente possiamo affirmare che l'universo è tutto centro o che il centro dell'universo è per tutto, e che la circonferenza non è in parte alcuna per quanto è differente dal centro, o pur che la circonferenza è per tutto, ma il centro non si trova in quanto che è differente da quella.
(Bruno qui con "universo" intende il riflesso immanente, e dunque passibile di indagine razionale, dell'Uno, cioè del Dio che, per sua natura, è imperscrutabile agli intelletti umani). Questa visione viene poi ripresa da Pascal che scrisse, come rammenta Borges:
La natura è una sfera infinita il cui centro è in tutte le parti e la circonferenza in nessuna.
ma che, nel manoscritto originale, scrisse "spaventosa" in luogo di "infinita".
Qui voglio rimarcare come queste argomentazioni si fossero spinte molto più oltre nell'opera di Nicola Cusano, ed in particolare nella sua Dotta ignoranza. Quivi Cusano dimostra come un triangolo ed un cerchio infiniti siano la medesima cosa, al fine di dimostrare la ragionevolezza del dogma della trinità divina, e rende più complesso ed elaborato il dettame ereditato, consciamente o inconsciamente, dalla tradizione ermetica e neoplatonica. Leggiamo nel libro I, cap.XII:
Altri ancora, che si sono sforzati di raffigurarsi l'unità infinita, dissero Dio cerchio infinito. E coloro che considerano di Dio l'esistenza assolutamente in atto, dissero che egli è come una sfera infinita.
Il paragone che azzarda Cusano è quello del triangolo infinito, e le figure che sembra suggerire ricordano la rappresentazione schematica del piano proiettivo
Il cerchio è figura perfetta dell'unità e della semplicità. Abbiamo già dimostato che il triangolo [infinito] è cerchio. [...] Questi pensieri si evidenziano nel cerchio infinito senza principio e senza fine, eterno, in modo indivisibile quanto mai uno e tale da abbracciare tutto. E poiché si tratta si un cerchio massimo, anche il suo diametro è massimo. Ma poiché non possono esservi più massimi [dimostrazione per assurdo basata sulla presunta unicità dell'infinito] quel cerchio quanto mai uno è tale che il suo diametro è circonferenza. Un diametro infinito ha un punto medio che è all'infinito. E il solo punto medio è il centro. Perciò contro, diametro e circonferenza sono la stessa cosa.
Partendo da questi presupposti, nel libro II, cap.XI, scrive:
Il centro del mondo coincide con la circonferenza. Ma il mondo non ha circonferenza. Se avesse un centro, il mondo avrebbe anche una circonferenza, e avrebbe in se stesso, al suo interno, l'inizio e la fine, e avrebbe limiti in rapporto a qualcos'altro e, al di fuori del mondo vi sarebbe dell'altro e vi sarebbero altri luoghi ancora. Affermazioni tutte senza verità. Essendo impossibile che il mondo si racchiuda fra un centro corporeo ed una circonferenza, il mondo risulta inintellegibile, e Dio stesso ne è centro e circonferenza.
Osserviamo come in questo passo ritorni l'opinione citata in precedenza di San Bonaventura e Campano da Novara sulla non esistenza di altri luoghi di là dal cosmo: esso non è immerso in nessun altro spazio ultraterreno. Infine, nel libro II, cap.XII, Cusano formula la sua versione del dictamen giunto da Hermes Trismegistus a Pascal:
La macchina del mondo avrà il centro ovunque, e la circonferenza in nessun luogo, poiché la sua circonferenza ed il suo centro sono Dio, che è dappertutto e in nessun luogo.
Non è il caso di insistere ulteriormente sulla ricchezza tematica dell'opera di Cusano i cui riferimenti matematici divengono spesso l'asse portante di intere argomentazioni. Allontaniamoci quindi (non senza una punta di rimpianto) dal filosofo rinascimentale, avvicinandoci al contempo al presente.
Un pensatore dell nostro secolo che ha tributato a Cusano il riconoscimento dovuto è stato Hermann Weyl: come è noto, il grande intellettuale tedesco non solo ha lasciato un'orma profonda nelle matematiche moderne, ma ha anche contribuito al dibattito filosofico della prima metà del novecento intorno ai fondamenti del pensiero scientifico. È nella prima di tre conferenze tenute alla Yale University nel 1931 che Weyl fa esplicito richiamo alla dotta ignoranza di Cusano in relazione al problema della concezione del divino nel mondo moderno. L'aspetto geometrico ed aritmetico delle simmetrie naturali è il punto di partenza delle argomentazioni di Weyl, che cita Kepler nel passo
La scienza dello spazio è unica ed eterna, ed è un'immagine dello spirito di Dio.
in cui riecheggiano le opinioni di Bruno e Cusano, e sviluppa il suo discorso nel quale, latente, dietro osservazioni caute e pacate, in Weyl s'avverte la stessa tensione che abbiamo già letto in Bruno e Cusano: Weyl ovviamente non fa esplicito riferimento al motto antico del quale abbiamo tracciato la storia, poiché è un moderno, ben conscio delle differenze fra mondo matematico e mondo fisico, ma ciò non gli impedisce di esprimersi così:
La mera postulazione del mondo esterno non spiega, in realtà, proprio ciò che si supponeva dovesse spiegare, e cioè il fatto che io, in quanto sostanza che agisce e percepisce, mi trovo collocato in tal mondo; la questione della sua realtà è inseparabilmente connessa con la questione del render conto della sua armonia retta fra le leggi matematiche. Ma il fondamento definitivo della ratio che governa il mondo lo possiamo trovare solo in Dio; è un aspetto della sostanza divina.
Piuttosto che un modello geometrico, Weyl lascia intendere che, come termine di paragone, come analogia cusaniana, è il modello insiemistico quello che può evocare suggestioni teologiche corrette. Così la teoria cantoriana del transfinito dà lo spunto a Weyl per le seguenti riflessioni:
Noi rigettiamo la tesi della finitezza categoriale dell'uomo, sia nella sua forma statica [...], sia nella sua forma teistica, specificamente luterano-protestante [...] Al contrario l'intelletto è libertà all'interno delle limitazioni dell'esistenza; è aperto verso l'infinito. È vero che Dio, così come l'infinito attuale, non può e non potrà essere compreso dall'intelletto; Dio non può penetrare nell'uomo attraverso la rivelazione, né può l'uomo penetrane in lui attraverso la percezione mistica. L'infinito attuale può essere solo rappresentato simbolicamente.
(si noti l'ultimo periodo, che riecheggia una nota sentenza di Gauss.) Rileggendo questo passo di Weyl, due altre concezioni tornano alla mente: gli interventi teologici di Cantor e Planck.
Georg Cantor, partendo dalla sua teoria degli insiemi e cercando di giustificare il concetto di insieme che tentava di formalizzare, arriva a spiegare la plausibilità e l'esistenza degli insiemi con la plausibilità e l'esistenza di Dio:
Una dimostrazione parte dal concetto di Dio, e dalla massima perfezione dell'essenza di Dio trae come prima conclusione la possibilità di creare un transfinitum ordinatum [la gerarchia totalmente ordinata dei numeri ordinali]. Passa poi a concludere dalla sua divinità e gloria la necessità della riuscita della creazione reale del transfinitum.
Azzardo qui, in modo empio e blasfemo, una versione cantoriana del dictamen sulla natura di Dio il cui riaffiorare nella storia del pensiero stiamo considerando: Dio è un insieme i cui sottoinsiemi sono ovunque e che non è contenuto in nessun altro. Aggiungo anche che questa formulazione è mal posta: un tale insieme sarebbe l'insieme degli insiemi, e il paradosso di Russell diverrebbe una dimostrazione per assurdo della non esistenza di Dio!
Più ragionevole, Max Planck sembra sostenere alcune delle opinioni di Weyl, quando in una sua conferenza del 1937 afferma:
Niente quindi ci impedisce, anzi una nostra inclinazione intellettuale tendente ad una concezione unitaria del mondo lo esige, di identificare tra loro i due poteri operanti su tutto, eppure pieni di mistero, l'ordinamento del mondo della scienza e il Dio della religione [...] Partendo da ciò egli [lo scienziato] cerca di avvicinarsi il più possibile, sulla via della ricerca induttiva, a Dio e al suo ordinamento del mondo come scopo supremo, eternamente irraggiungibile.
Ecco di nuovo espressa, da un fisico, l'inintellegibilità dell'infinito attuale (in qualche modo identificato con Dio nel miglior spirito plotiniano) già espressa da Weyl. Ma questo ci porta fuori strada rispetto al percorso che stiamo seguendo e tracciando allo stesso tempo, e che parte, cronologicamente, dalla sfera infinita di Parmenide. Prendendo spunto tuttavia dal passo di Cantor sopra riportato, non sembra inopportuno riprendere il discorso insiemistico e logico sull'esistenza di Dio.
Mentre Weyl sembra postulare l'esistenza del mondo e da questa intuire l'esistenza di Dio, e tuttavia non azzarda nessun tentativo di riesumare una "teologia razionale" (pure in voga ai suoi tempi, nel post Concilio Vaticano I), nella quale gli enti metafisici sono rappresentati simbolicamente e manipolati con le regole della logica formale, un suo grandissimo coevo, Kurt Gödel, si spinge più in là.
La dimostrazione ontologica dell'esistenza di Dio elaborata da Gödel è di difficile reperimento: ne ho trovato tracce nel volume di Hao Wang Reflections on Kurt Gödel (MIT Press, Cambridge, 1987) dal quale copio ciò che segue. Intanto Gödel introduce i concetti, distinti dagli oggetti, che considera enti intenzionali (congettura, seguendo Frege, che gli insiemi siano estensioni di concetti). Chiama poi positivi e negativi i concetti che fanno riferimento ad entità morali. Allora la linea del ragionamento di Gödel è la seguente:
Ovviamente sarebbe interessante vedere la dimostrazione in tutti i dettagli (senza contare del problema dell'unicità: in genere in Matematica si procede per assurdo, ma Gödel era molto attento alle istanze intuizioniste, che rigettano questo metodo di dimostrazione, e chissà come avrebbe proceduto in questo caso). Non credo comunque che le opere di Gödel in corso di pubblicazione riportino i suoi scritti in proposito.
Dimostrazioni simili erano già state date da Cartesio e da Leibniz, sulla base del classico argomento di Sant'Anselmo d'Aosta, il cosiddetto argomento ontologico, che si può riassumere come segue: si parte dal concetto (innato in ogni uomo per ipotesi) di Dio quale essere perfetto o necessario, e si conclude, senza rifarsi all'esperienza empirica (cioè a priori) l'esistenza di questo essere, che è caratteristica essenziale della sua perfezione o necessità (in breve: Dio è così perfetto che fra i suoi attributi v'è l'esistenza).
L'interesse della dimostrazione di Gödel è triplice: intanto l'autorità di Gödel stesso spinge a prenderla in considerazione dal punto di vista dell'argomentazione formale; poi il grado di precisione con la quale è formulata, che la rende esteticamente interessante; infine il fatto che sia stata elaborata negli anni '70 del XX secolo! Conchiuderò qui l'argomento, certo di aver sconcertato il lettore, ricordando la seguente confutazione delle dimostrazioni ontologiche dell'esistenza di Dio elaborata dal teologo tedesco Hans Küng:
L'argomento ontologico si era interrogato sull'esistenza di un essere perfettissimo e necessario. Ma che un tale essere esista realmente non si è potuto dimostrare, in quanto dal concetto soltanto pensato di qualcosa non segue necessariamente la sua realtà.
Gödel aggira in parte questa critica introducendo assiomi in qualche senso platonici: il platonismo implica l'esistenza di Dio (congetturo che sia equivalente). A questo proposito (vale a dire a proposito di neoplatonismo, sebbene di stampo più antico), amo citare le sapienti parole dello pseudo-Dionigi, quando nella sua prima lettera a Gaio monaco, afferma che
Egli stesso [Dio] invece è situato al di sopra dell'intelligenza e dell'essere: proprio perché è totalmente sconosciuto ed inesistente, esiste in modo sovraessenziale ed è conosciuto in una maniera che trascende l'intelligenza. La totale ignoranza spinta al massimo grado è identica alla conoscenza di colui che si trova al di sopra di tutti gli esseri conoscibili.
cioè Dio non solo è inconoscibile (come Weyl e Plank ricorderanno quindici secoli dopo) ma anche inesistente, in qualsiasi modo si voglia intendere la parola "esistere"...
En passant vorrei far notare come sia Weyl che Gödel diedero un contributo alla questione cosmologica: Weyl si occupò della teoria einsteiniana della Relatività Generale fornendone una elegante formulazione variazionale e scrivendo uno dei primi trattati, Raum, Zeit, Materie sull'argomento divenuto ormai un classico; Gödel trovò nel 1949 nuove soluzioni delle equazioni cosmologiche di Einstein che prevedono un universo "rotante" che compie una rotazione completa ogni 70 miliardi di anni e che prevede la possibilità di viaggiare nel passato; questa immane sfera ricorda in modo inquietante quella platonica: era quindi d'obbligo rubricarlo in questa sede, dedicata alla storia della sfera di Pascal.
Tornando a Küng, questi nel suo libro Existiert Gott? (Piper&Co., München, 1978) sembra proporre una visione mondana e storica di Dio, fortemente intrisa di neohegelismo. Una lettura spregiudicata e radicale di questo libro sembrerebbe indurre a credere che la visione di Diodi Küng è quasi materialistica (bruniana?), cioè che Egli non sia altro dall'universo e dalla sua evoluzione. Questa interpretazione mi è tornata alla mente nel leggere un saggio, di M.Eden, apparso nel volume collettivo Mots (Hermes, Paris, 1991), ed intitolato God, Man and Science. L'analisi di questo recente lavoro chiuderà il cerchio iniziato con la sfera di Parmenide.
Le speculazioni della cosiddetta "teologia razionale" tendono ad essere relegate fra i ricordi del passato, o fra le dabbenaggini di malaccorti teologi contemporanei. Eppure il percorso cvhe abbiamo seguito nella prima parte di questa nota ci ha portato fino agli anni '70 del XX secolo: vedremo qui come nel 1990, ad opera di uno scienziato, nuove concezioni razionalistiche di Dio siano state elaborate; ci porremo dunque la finalità di prendere sul serio queste elucubrazioni ed argomentarci sopra, sperando di contribuire, pigri, inetti ed eretici come siamo, alla confusione ed al disappunto del lettore.
Dio è una sfera intellegibile il cui centro è in
ogni parte e la cui circonferenza in nessuna.
La storia di questo enunciato, cui si è dato un modesto contributo nel nostro precedente intervento, ci ha condotti alla considerazione del rapporto fra immaginazione geometrica e metafisica. Avevamo promesso una breve trattazione delle spregiudicate concezioni geometrico-teologiche che Murray Eden professa nel suo saggio God, Man and Science (in M.Lothaire (ed.) Mots, Hermes, Paris, 1991), ed avevamo tratto spunto, per introdurre le più o meno farneticanti (di ciò si lascia il giudizio al benevolo lettore) opinioni di Eden, dalle ben più razionali e e prudenti concezioni del teologo Hans Küng, famosa quanto discussa voce della moderna teologia cattolica.
La frase riportata in calce evoca in noi suggestioni geometriche: da un lato possiamo facilmente immaginare una "sfera infinita" come una sfera di raggio infinito, il cui centro è effettivamente ubiquo: se per sfera si intende "luogo di punti equidistanti da un punto detto centro" è ovvio che ogni punto dello spazio racchiuso da una sfera di raggio infinito ha distanza infinta (quindi uguale al raggio) della superficie sferica che è localizzata all'infinito, per l'appunto.
V'è tuttavia qualcosa di antiestetico e fuorviante in questo ragionamento e, visto che abbiamo la geometria proiettiva a disposizione, non possiamo che pensare che la superficie di una tale sfera non sia altri che il piano improprio, e che quindi la sfera piena infinita altri non sia che lo spazio proiettivo; tuttavia, se lo spazio proiettivo è imparentato con una sfera, questa sfera è S3 (la sfera tridimensionale che racchiude una palla quadridimensionale), poiché lo spazio proiettivo ne è quoziente topologico. Quindi l'immagine di una sfera infinita (che immaginiamo dinamicamente come una sfera che si espande all'infinito) non è significativa. Piuttosto le fascinazioni della geometria proiettiva possono fornire spunti più raffinati per tradurre il dictamen da noi discusso in termini esteticamente accettabili.
Il vizio essenziale che invalida, ed anzi rende deliranti le osservazioni precedenti, è la concezione metrica della sfera: secondo la definizione euclidea di luogo di punti equidistanti dal centro il concetto di sfera perde semplicemente senso quando le distanze divengono infinite, e quindi la metrica si banalizza. Diversamente potremmo pensare di utilizzare caratterizzazioni topologiche della sfera per immaginare la sfera infinita. Ad esempio la prima cosa che viene in mente è che la sfera è compatta: la compattezza è una proprietà puramente topologica e, sebbene la nostra forma mentis euclidea ci forzi a figurare un compatto come qualcosa di limitato, il che collide in qualche modo con l'idea di infinità che deve far parte dell'immagine che andiamo formandoci, il barlume infantile della visione topologica del mondo potrebbe sugegrirci la generalità del concetto di compattezza, della quale uno degli esempi più clamorosi è il teorema di Tikhonov: così il cubo di Hilbert, che è il prodotto cartesiano di infinite copie del segmento [0,1], è compatto pur avendo infinite dimensioni. La sfera ad infinite dimensioni poi è ben nota conoscenza ai topologi algebrici, che ne hanno argomentato, ad esempio, la contraibilità... Ma è risaputo (o dovrebbe esserlo): la topologia può essere più mistica ed iniziatica della teologia.
Un ulteriore segno della inusitata semplicità della concezione geometrica sopra considerata si evince ponderando sul fatto che, ai nostri giorni, esiste una teoria geometrica del mondo, che è la relatività generale, la quale ci pone in una varietà differenziabile, con metrica di Lorentz (non euclidea) e soprattutto non compatta (la compattezza implicherebbe l'esistenza di paradossi temporali). Come si vede, la raffinatezza delle teorie geometriche moderne rende imbarazzante trattare dell'immanenza di Dio e di una sua presunta bruniana o comunque panteistica identificazione col mondo.
Eppure non tutto pare perduto: esistono ancora solfeggiatori del pensiero che si dilettano in acrobazie geometrico-teologiche, e Murray Eden è uno di questi. Nel suo saggio si sofferma su molti aspetti della natura divina, epperò io ne prenderò in considerazione solo gli spunti attinenti alla nostra oziosa discussione.
Eden inizia la sua esposizione enunciando gli assiomi fondamentali che è bene postulare per accettare la sua discussione: l'esistenza del mondo (assioma materialista) e l'esistenza di Dio (assioma teista). Un altro assioma che Eden assume, e che lega i due precedenti, è che dio abbia creato il mondo, in un qualche senso che probabilmente non può specificarsi meglio.
Eden improvvisa anche qualche timida argomentazione contro le negazioni di uno o più di questi assiomi, argomentazioni opache in verità, e che non mi sembrano paragonabili al serio studio di Hans Küng, del quale avrò modo di parlare, argomentazioni, dicevo, sulle quali non voglio soffermarmi e che sono volte a negare il nichilismo (che nega il mondo e Dio), l'ateismo (che nega Dio ma non il mondo) e l'idealismo berkleyano (che nega il mondo ma non Dio).
Una ulteriore assunzione è che esista un solo Dio: le argomentazioni addotte da Eden in favore di questo postulato sono deboli: si limita a dire che più divinità potrebbero entrare in conflitto fra loro. Su questo assioma ci sarebbe molto da dire: mi limito ad osservare che una concezione ragionevole di Dio ne contempla anche l'unicità: infatti il concetto abramico che Eden sembra professare implica necessariamente l'unicità (più déi in uno stesso universo vuol dire l'assenza di un Dio). Un raffinato argomento è dato nei Capp.II-III della Città virtuosa da Abu Nasr al-Farabi; qui mi limito ad abbozzare una dimostrazione per assurdo (come quasi ogni dimostrazione di unicità): se esistesse più di un Dio soddisfacente ai tre assiomi di Eden, allora, postulando anche la coerenza del mondo e dei fenomeni naturali, il che rende possibile ad esempio la ripetitività delle osservazioni e quindi la scienza, il terzo assioma darebbe immediatamente un assurdo. Un ulteriore spunto di interesse potrebbe essere indagare l'unicità di Dio nell'àmbito del sistema di assiomi che Gödel usa per formalizzare la prova ontologica dell'esistenza di Dio: visibilmente i sistemi di Weyl, Gödel ed Eden sono diversi.
L'assioma seguente di Eden è quello che potrebbe chiamarsi "assioma panteista forte": Dio è materiale. Eden ammette che le correnti teologiche tendono a considerare Dio immateriale e riconosce in questo una caduta verso il paradosso dualista, denunciato in modo lucido ad esempio dal logico Smullyan in An unfortunate dualist (in This book needs no title, Prentice Hall, 1980), secondo il quale un Dio immateriale non può interagire col mondo materiale (questione che risale a Cartesio, come ben noto). Eden pretende di dimostrare questo assioma panteista forte al modo degli scolastici, utilizzando una versione forte dell'assioma materialista: tutto ciò che esiste è materiale. Allora, per l'assioma teista, Dio è materiale.
Questo punto ci consente di ricondurci alla discussione dalla quale eravamo partiti: infatti se Dio è materiale allora possiamo darne un modello geometrico, esattamente come facciamo per l'universo.
Il passaggio che rende bene l'idea della concezione di Dio di Eden è quello che traduco qui di seguito:
Un argomento sollevato a favore di un Dio immateriale è che Lui/Lei sia dovunque. È come se Dio fosse distribuito uniformemente nelle quattro dimensioni della fisica classica e forse anche nelle dieci (o più) dimensioni postulate da alcuni fisici moderni. In tali circostanze è difficile capire come Dio possa avere una densità finita in un universo illimitato. Naturalmente, l'universo potrebbe essere limitato e quindi l'integrale della massa di Dio sull'universo sarebbe finito [...] Ad esempio agisce ogni elemento di volume della massa di Dio indipendentemente? Se è così, in che senso Dio è unitario? Altrimenti, c'è un centro di controllo ed in che modo differisce dal resto di Dio?
(il lettore tragga le conclusioni che vuole dal passo precedente: io mi astengo da ogni commento, simulando una imparzialità che invero non posseggo.)
Prendiamo comunque sul serio questo brano: la conclusione cui giunge Eden è che Dio non è dovunque, ma è in grado di percepire ogni cosa ovunque: questo crea tuttavia ulteriori problemi: infatti un'attivitàpercettiva richiede sempre un'intervento sull'ambiente (perché avviene per tramite di una interazione) e se Dio è materiale, come assume Eden, è pure soggetto al principio di indeterminazione di Heisenberg nel suo interagire col reale, ed ogni osservazione che Lui/Lei (per dirla con Eden) compie àltera il fenomeno osservato. Gli effetti dissipativi dovuti all'osservazione, ed il fatto che un'osservazione richiede comunque energia complicano ulteriormente la questione. Eden non può nascondersi il problema e prova a trarsi d'impaccio dicendo comunque che Lui/Lei non può avere più energia di una pulce o più massa di un neutrino.
In realtà i problemi non finiscono qui: il concepire la materialità di Dio conduce ad un panteismo per così dire estremo: se Dio è materiale allora è soggetto alle stesse leggi che regolano i fenomeni materiali, leggi fissate da lui medesimo. Questo può non essere del tutto paradossale, ma pone diversi problemi, primo fra tutti che senso dare alla frase "Dio ha creato il mondo", che Eden ritiene esser vera (e quindi implicitamente non priva di significato).
D'altra parte, se Dio è materiale, dovrebbe essere incluso nel còmputo di ciò che vi è, vale a dire l'universo stesso. Ma, se Dio fa parte dell'universo non sembra ragionevola affermare che lo abbia creato, a meno di non intendere in qualche modo esotico la semantica del verbo "creare". Tutto ciò mi pare riecheggiare la credenza (condivisa dalle religioni orientali ad esempio) che l'universo non abbia mai avuto inizio (e specularmente che non avrà mai fine), e che la presunta singolarità del Big-Bang sia illusoria (cosa che i fautori del tempo immaginario, nel senso dei numeri complessi, ritengono vera): ma è inutile pontificare su questo, vi sono miriadi di saggi più o meno divulgativi (e più o meno farneticanti) che affrontano la questione dell'inizio dei tempi.
Per concludere questa verbosa divagazione vorrei proporre le più prudenti opinioni del teologo Hans Küng, già citato, che propone una mondanità di Dio in un senso neo-hegeliano che, per quanto intriso della farraginosa e rude simmetria dei sistemi tedeschi ottocenteschi, mi pare teologicamente più sensata delle tesi enunciate dallo scienziato Murray Eden. Cito testualmente alcuni brani dal suo ponderoso trattato dedicato al problema dell'esistenza di Dio, a costituire una sorta di riassunto della storia di questa misteriosa questione.
La metafisica greca classica, quale venne recepita dalla teologia cristiana, era un primo, ma per noi insufficiente passo verso il superamento dell'ingenua comprensione antropomorfica di Dio (ad es. Omero): un'accentuazione della fondamentale differenza fra Dio e divino da una parte, e mondo e uomo dall'altra. Platone è stato colui che [...] ha introdotto nella storia culturale dell'Occidente la divisione dualistica della realtà [...] Per la comprensione di Dio, ciò equivale a una netta separazione fra il mondo divino delle idee, con al vertice l'idea di Bene [si pensi alla dimostrazione di Gödel], e il mondo sensibile dell'apparenza formato di materia cattiva. Aristotele giunse invece a tirare giù dal cielo le idee divine e sovramondane di Platone, per porle nelle cose di questo mondo. Ma in tal modo diventa ancor più incolmabile l'abisso fra il Primo Principio e il mondo [...] Infatti, per questo essere divinopuro (actus purus) ogni autentico rapporto col mondo denuncerebbe anche una carenza (potentia). Anche Plotino [...] vede l'Uno divino separato dal mondo [...] La teologia cristiana [...] ha corretto in molti modi il dualismo greco: per la teologia classica dei Padri della Chiesa e del'alta scolastica, Dio è immanente al mondo proprio perché lo trascende. La teologia cristiana, però, lungo la storia, è anche rimasta ancorata in molti modi al dualismo [...] Descartes [...] ha persino inasprito questo dualismo [...] Hegel, infine, fu colui che, dopo altri, cercò con Fichte e Schelling, di operare una mediazione. Ma soltanto Teilhard [de Chardin] e [Alfred N.] Whitehead, alla luce dell'odierna unitaria visione scientifica del mondo, vedono Dio e il mondo nella loro unità, senza per questo eliminare le differenze.
Dispiace che il teologo tedesco non abbia citato il suo illustre conterraneo Weyl nel concludere le sue riflessioni, comunque questo brano riepiloga sinteticamente la storia dell'idea di mondanità divina: quale posto debbano avere in questa storia le elucubrazioni di Eden non mi è chiaro; il lavoro di Eden è ricco anche di altri spunti, non meno problematici, sui quali non possiamo (non vogliamo (non dobbiamo?)?) soffermarci...
Faccio solo notare come la concezione geometrica di Dio che avevamo rintracciato fin dai presocratici, trovato esplicitamente nel pensiero ermetico ed inseguito attraverso tutto il filone neoplatonico del pensiero occidentale, giungendo a Pascal (da dove abbiamo cominciato seguendo lo spunto di Borges) mai ha raggiunto la complessità tecnica di Eden, perché nemmeno i più sfrenati mistici del passato avrebbero mai immaginato di poter integrare sulla massa di Dio...
Un pensiero, forse un'inquietudine, spero d'aver suscitato nella mente del lettore: ormai siamo abituati al fatto che gli scienziati (in particolare i fisici che hanno a che fare con questioni ultime (o prime?) come l'origine dell'universo) esprimano giudizi ed opinioni metafisiche nel loro linguaggio tecnico, spesso utilizzando le loro conoscenze scientifiche anche per immaginare e concepire Dio, ma dobbiamo anche abituarci al fatto che le opinioni dei teologi in materia possano essere molto più prudenti, e forse ragionevoli, di quelle degli scienziati.
Visto che questa corposa nota è stata costruita attorno a parole altrui, citate forse non sempre a proposito, non posso che concluderla affidando ad un autore la cui esistenza è dubbia quanto quella di Dio, l'ultima parola in materia di mondanità divina. Si tratta delle parole conclusive della Teologia Mistica del presunto Dionigi Aeropagita: parlando della causa universale (cioè di Dio) afferma che
non è né anima, né intelligenza, e non possiede né immaginazione, né opinione, né parola né pensiero; che essa stessa non è né parola né pensiero; e che non è oggetto nè di discorso né di pensiero. Non è né numero, né ordine, né grandezza, né piccolezza, né uguaglianza, né disuguaglianza, né somiglianza né dissomiglianza; non sta ferma né si muove, né rimane quieta né possiede una forza, né è nua forza; non è luce; non vive e non è vita; non è né essenza, né eternità, né tempo; non ammette neanche un contatto intellegibile; non è né scienza, né verità, né regno, né sapienza; non è né uno, né unità, né divinitè, né bontà; non è neppure spirito, per quanto ne sappiamo; non è né figliolanza, né paternità, né qualcuna delle cose che possono essere conosciute da noi o da qualche altro essere; non è nessuno dei non-esseri, e nessuno degli esseri; né gli esseri la conoscono in quanto esiste; e neppure essa conosce gli esseri in quanto esseri. A proposito di essa, non esistono né discorsi, né nomi, né conoscenza; non è tenebra, né luce, né errore, né verità; non esistono affatto, a proposito di essa, né affermazioni né negazioni: quando facciamo delle affermazioni o delle negazioni in séguito ad essa, noi non l'affermiamo né la neghiamo. In effetti, la causa perfetta ed unitaria di tutte le cose è al di sopra di ogni affermazione; e l'eccellenza di colui che è assolutamente staccato da tutto e al di sopra di tutto è superiore ad ogni negazione.
POSTILLA 2002: Frugando nella rete ho scoperto un bel saggio di Chiara Richelmi, decisamente più "professionale" ed interessante di quello da me qui presentato, dedicato all'armonia delle sfere celesti nella Divina Commedia e che si apre con una citazione borgesiana sulla sfera di Pascal.
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